giovedì 3 dicembre 2015

Lahore
Gli schiavi-bambini del Pakistan
La schiavitù resiste. Ieri, Giornata internazionale per l’abolizione della schiavitù, il mondo ha ricordato che tra le sue varie forme quella per lavoro è subita da 21 milioni di individui. Un dato segnalato dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), che ha pure ricordato il “caso” pachistano, particolarmente significativo perché legato alla schiavitù per debito. Un sistema pianificato di sfruttamento, volontario per i più nella fase iniziale, ma che diventa ben presto coercitivo e per molti permanente.

L’Ilo stima che a trovarsi in una situazione di lavoro in condizioni di schiavitù siano 4,5 milioni di individui, sovente interi nuclei familiari, e segnala come la riduzione allo stato di schiavitù avvenga attraverso un sistema semplice ma collaudato: la convinzione a accettare il prestito di piccole somme di denaro in cambio di lavoro nelle fabbriche di mattoni. Queste somme, di fatto, raramente vengono condonate, ma crescono a dismisura e prolungano quindi l’obbligo per lungo tempo, a volte per una vita intera, finendo anche per trasferirsi sui figli.

Il caso proposto dal’Ilo della sorte di Naseem Bibi e della sua famiglia è emblematico. Come per gli altri nuclei familiari, una cinquantina, impiegati nella stessa fabbrica di mattoni nella provincia del Punjab, anche al suo tocca produrre oltre mille mattoni al giorno per un compenso che equivale a 4,5 dollari Usa, in sé già metà del salario minimo legale. Tuttavia, le detrazioni arbitrarie e variamente motivate portano a una crescita del debito anziché a una riduzione. «Ci tolgono quotidianamente tre dollari dal salario e non tengono alcun conteggio di quanto abbiamo già restituito. Inoltre, produciamo 1.000 mattoni al giorno ma dicono che sono 900».

Espedienti che spiegano l’impossibilità a uscire dal circolo vizioso del lavoro e del debito. «Ogni due o tre mesi scopriamo che il debito è salito di 200, 300 dollari», segnala Naseem Bibi, il cui marito ha iniziato a produrre mattoni all’età di 14 anni, costretto dai debiti della propria famiglia, e ha finora passato 17 anni della sua vita cercando di restituire il debito contratto. Una situazione nota e che ovviamente contrasta con le leggi del paese, ma che per gli interessi dei produttori, consociati in un sistema mafioso, per le connivenze e gli appoggi, continua a essere inattaccabile.

Ufficialmente infatti non esiste una schiavitù su larga scala e le autorità, al contrario, sottolineano come le fabbri- che di mattoni siano sottoposte a controlli periodici. «Possiamo parlare di pratiche tradizionali tramandate nei secoli, ma non di schiavitù come molti immaginano, ovvero con individui incatenati o bastonati dai datori di lavoro, costretti a lavorare contro la loro volontà e senza salario – segnala il ministro per il Lavoro e le Risorse umane Ishrat Ali –. Questo non può verificarsi in Pakistan».

Si calcolano in 20.000 le fabbriche di mattoni nel Paese. Un business essenziale e lucroso basato sul lavoro di centinaia di migliaia di disperati, in parte impiegati per scelta, in parte costretti. Contro questa situazione l’impegno è crescente e a volte vincente. Il solo Fronte per la liberazione dal lavoro forzato ha affrancato 80mila lavoratori dalla loro condizione, ma l’impegno suo e di altre organizzazioni che agiscono in coordinamento con l’Ilo è anche di tagliare alla radice il problema. Intervenendo sul piano legale ma anche incentivando la permanenza dei giovani nelle aule e sanzionando antiche pratiche sociali che pongono tanti pachistani in condizione di sostanziale schiavitù.
Stefano Vecchia

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